In occasione della Giornata Mondiale sulla Sindrome di Down Massimo Raccagni ha condiviso con noi un estratto di vita di A., giovane con disabilità ospite di Casa Di Marina.

L’atelier “Spazio parola” è un tempo di riunione settimanale in struttura,  un luogo espressivo all’interno del quale giovani  e adulti con disabilità  vengono accompagnati ad occupare un proprio posto nel gruppo, mettendo in gioco la loro parola nella prospettiva di costruire un legame a partire dalla testimonianza di un sapere particolare, anche se spesso piuttosto eccentrico al senso comune.

La poetica dell’educativa: come rapportarsi con chi ha una disabilità

Un’educativa che si serve in modo indiscriminato delle categorie conoscitive standardizzate del “funzionamento della disabilità” produce effetti di disabilitazione della soggettività, fissando l’individuo a quel complesso di significanti appartenenti al campo semantico della svalutazione, del ritardo incolmabile.

Un’etica professionale che non riesce ad animare una poetica dell’educativa, trasferisce questi significanti appartenenti al campo semantico della deficitarietà nello sguardo tecnico o pregiudizievole dell’operatore di riferimento al quale il soggetto con disabilità rimane legato in forma dipendente.

La necessità di stimolare e relazionare

Il soggetto con insufficienza mentale, nel difficoltoso tentativo di prodursi in un discorso, si troverà costretto inesorabilmente a partire dall’identificazione, a quei significanti che legittimeranno la povertà dei contenuti, sempre gli stessi, che orienteranno la vita e la possibilità degli scambi relazionali in un ambiente protetto.

L’assenza di desiderio di discorso contamina la relazione reciproca tra operatore e ospite.

L’esperienza di A. allo spazio parola

A. partecipa per la prima volta all’atelier spazio parola. Si presenta al gruppo, prima ancora di formulare il suo nome proprio, tentando di definirsi dicendo innanzitutto “io sono Down”. A. esibisce il significante Down come costituente la sua carta di identità. Poi tace.
Sollecitato dal conduttore che chiede spiegazioni ulteriori, A. inizia un discorso molto impostato, inizialmente con modi ragionevoli: “sono Down, vuol dire che…” e descrive agli altri ospiti gli effetti limitanti della sindrome, come se avesse raggiunto una piena metacognizione della propria condizione di disabilità. Mentre dice queste cose, A. mostra un’espressione tesa nello sforzo di interpretare una parte.

È evidente quanto A. si definisca a partire dalla condizione di “essere parlato” rappresentandosi con quelle categorie linguistiche prelevate da qualcun altro dal quale è stato formato.

Che uso fa A. del sapere dell’altro? In che modo lo ha fatto proprio?

Le espressioni di A. rivelano la sua totale alienazione alle identificazioni offerte dal discorso dell’Altro sociale, reperite nel corso delle intense esperienze di apprendimento abilitante effettuate con educatori verso i quali A. si è mostrato sempre docile ed accondiscendente.

Nel gruppo ci sono altri ospiti che ascoltano, alcuni dei quali evidentemente portatori della stessa sindrome, ma A. non li riconosce come tali: il significante “Down” gli appartiene come insegna identitaria assolutamente propria.

A. continua nello sforzo di interpretare questa parte che assume sempre più i toni di una delicata commedia. Ma la scena cambia improvvisamente quando il conduttore interroga A. intorno alla ripetizione di quei significanti utilizzati per dare consistenza chiusa alla propria individualità. La ripetizione cede ed A. dimostra di non saperci fare con quel sapere del tutto estraneo: disorientato, arriva a sostenere che lui è Down perché ha contratto un virus, come quello dell’influenza.

Cercando altri pensieri e parole proprie, prescindendo ora dalle proprie limitazioni funzionali, A. prende le distanze dal discorso dell’altro, inizia ad intraprendere un altro dire e confida che in futuro vorrebbe diventare un famoso commentatore televisivo, oppure fare il giornalista per girare il mondo intervistando le persone e scrivendo di loro sui giornali. Per quanto il suo dire risulti eccentrico al buon senso comune, ora A. sorride mentre si esprime, evidentemente animato dal proprio desiderio di essere in un legame discorsivo.

L’équipe ora si può interrogare su una questione di politica dell’educativa: pur nel rispetto dei limiti del registro intellettivo, quale invenzione può favorire un’inclusione dell’eccentricità di A. anche se in un contesto sociale protetto?

 

Massimo Raccagni, psicologo-psicoterapeuta, opera fin dal principio della sua esperienza professionale all’interno di istituti di cura diurni e residenziali che accolgono bambini, giovani e adulti con disabilità e disturbi mentali. Autore di La pratica dell’educatore con il disabile intellettivo. Riabilitazione dell’etica professionale nella valutazione e negli atelier, Milano, Franco Angeli, 2017; Riabilitare il soggetto nel discorso dell’équipe educativa, Etabeta Editore, (curatore e coautore), 2018. Applicazioni della psicoanalisi nelle istituzioni per le disabilità, Mimesis editore, 2020.
E’ responsabile di Casa Marina (CSE Il Faro, CSE Il Molo, CARD La Baia)– Servizio per disabili Anteo Impresa Sociale