PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°17 “La storia di Rossella Ganga, Coordinatrice di servizi dedicati alle persone con disabilità

La determinazione per raggiungere un obiettivo nitido da sempre

Ho studiato Scienze dell’Educazione a Torino, diventando quella che mi sono sempre sentita: una Educatrice Professionale. Che volessi diventare questo è qualcosa che ho sempre saputo, non c’è stato un momento preciso in cui l’ho scelto. Avevo frequentato il Liceo socio-psico-pedagogico; vivevo a Nuoro, allora, e dopo il diploma mi sono iscritta a Scienze Forestali; l’ho fatto perché in quella stagione della vita non mi stavo ascoltando, forse anche perché c’erano aspettative in quella direzione da parte della mia famiglia e comunque m’incuriosiva quel mondo… Dopo un anno ho capito che non era la mia strada. Così mi sono spostata prima a Cagliari e poi a Torino, alla ricerca di un percorso di qualità per diventare Educatrice.

Siamo cinque figlie, avevo bisogno di mantenermi agli studi e, con un appoggio presso un amico di Cossato, ho cominciato a studiare “pendolando” verso e da Torino e, nel contempo, lavorando in una piccola fabbrica a Gattinara. Stiravo calze: le infilavo in una macchina a forma di piede e stiravo. Era faticoso, il turno iniziava alle 6 del mattino e mi spostavo con i mezzi pubblici. Poi, dal secondo anno di università, ho cominciato a lavorare a Torino, prima in un Consorzio intercomunale e poi in una cooperativa sociale.

La mia è una famiglia umile; vivevamo in una casa popolare, a contatto con persone molto dignitose, con necessità di aiuto e sostegno di vario genere. Così, fin da giovanissima mi sono trovata immersa in storie molto forti; sentivo che potevo fare la mia parte perché conoscevo quel mondo, sapevo che cosa provano quelle persone e non mi spaventava stare a contatto con la sofferenza. Mi è venuto naturale pensare di utilizzare le mie esperienze, di farle diventare il mio lavoro.

Oltre le “etichette”

Il mio primo incarico è stato in Centro Diurno per Disabili a Moncalieri; lo frequentavano 20 persone adulte. Ricordo che il primo giorno la Responsabile mi parlò per due o tre ore delle diagnosi di ciascuno degli utenti, per presentarmeli. Io ascoltavo e intanto mi guardavo intorno, osservavo quelle persone. E ho percepito subito come le loro patologie fossero marginali, come fosse importante e interessante per me conoscerli, scoprirli un po’ per volta. M’incuriosiva come le diagnosi si appoggiassero sui caratteri, sulle personalità; mi stimolava esplorare che cosa c’era dietro le etichette di “autistico”, “oligofrenico”, “psicotico” etc… che, in sincerità, avevo dimenticato poco dopo la rassegna iniziale! Così ho scoperto che a uno piaceva ascoltare musica, un altro invece era infastidito se si parlava ad alta voce vicino a lui e a una ragazza c’era da prestare particolare attenzione perché mangiava i kiwi interi… E poi ho appreso come interagire con ciascuno di loro per capire che cosa “funzionava” per avviare e poi sedimentare la relazione.

Ho lavorato due anni in quel Servizio. Poi, dal 2005, sono sempre stata attiva in strutture residenziali, Comunità per persone disabili, prima come Educatrice e, dopo un anno, come Responsabile.

Legami e intrecci di vite

Del ruolo di gestione dei Servizi mi coinvolge soprattutto verificare che cosa si può fare con le risorse disponibili, organizzare, pianificare, tutte attività che sento nelle mie corde. E completare la visione delle vite delle persone di cui ci prendiamo cura: ricordo che i primi tempi m’interrogavo su che cosa succedesse prima e dopo la frequenza al centro diurno, che cosa facessero i nostri utenti dal risveglio all’inizio delle attività da noi e poi nel pomeriggio, dopo il rientro a casa. È interessante questo, nelle Comunità: la presa in carico totale della persona, della famiglia, la parte sanitaria, la dimensione delle routine, della quotidianità, dei piccoli rituali, degli interessi di ciascuno di loro, non solo quelli veicolati o stimolati dalle attività che proponiamo, e poi la gestione degli spazi, dei loro oggetti… È una condivisione ampia, profonda con la persona, con ciascuno di loro.

Vedo ancora i primi utenti che ho conosciuto, perché ho mantenuto i contatti con alcuni operatori di quel Servizio. Prima della pandemia, li abbiamo sempre invitati alle nostre feste di primavera, alle castagnate, per il piacere di stare insieme, di coltivare le relazioni… Uno di loro è davvero speciale, per me come per molti altri. Si chiama Mario [nome di fantasia; n.d.r.]: era arrivato in Comunità molto piccolo, un bimbo sordomuto solo, senza famiglia; oggi è un signore di circa 55 anni, molto dolce e gentile, appassionato dei film di Rambo; alto, biondo e con gli occhi azzurri, ha inventato un suo linguaggio, composto da una manciata di gesti e sguardi che vogliono dire: “grazie”, “pollo e patatine” e “Rambo”. La sua felicità è stare insieme agli altri, guardare un paio di film di Rambo al giorno e fumare la pipa. Tutti lo amano ed è bello ammirarlo, elegante, nel suo cappotto lungo, sulla porta della Comunità, quasi ne fosse il direttore.

Ecco: mi piacciono “quelli che nessuno vuole”, potrei dire, semplificando. Mi piace poter essere importante per le persone che stanno ai margini, aiutarle a prendersi una rivincita.

Non solo un ruolo professionale

In realtà, potrei dire che facevo già l’educatrice prima di diventarlo, in famiglia, con gli amici, con i vicini di casa, credo che le persone riconoscano l’attitudine all’ ascolto. Accade spesso che le persone mi raccontino le loro storie anche in situazioni inattese come in spiaggia o al supermercato: come se la capacità di ascoltare gli altri si percepisse, come se si sviluppasse una sorta di “magnetismo” che porta le persone a esprimere il loro bisogno di uno spazio di narrazione di sé in cui l’altro non giudichi, non sentenzi che cosa si sarebbe dovuto fare o dire… È un’esperienza molto comune anche fra i miei colleghi. E così raccogli storie, dai loro un valore. E, se richiesto, ti attivi. Con la grande responsabilità che questo comporta: perché le persone che si raccontano si affidano. Si aspettano qualcosa: puro ascolto oppure soluzioni.

Con gli utenti è importante usare l’ascolto attivo per cogliere, nel denso flusso di quello che raccontano, i passaggi incompleti, gli elementi da sviluppare e anche quello che è diventato solo un “romanzo”, una narrazione quasi rituale che non sempre corrisponde alla realtà dei fatti. Di fronte a queste storie, sempre e comunque, mi chiedo: perché mi racconta questo? Quale parte del suo racconto serve alla persona per giustificare la sua condizione, anche ai suoi stessi occhi, e quale può essere utile per il suo progetto di vita? In ogni caso, so che quella rappresentazione fa parte della sua identità, che sia costruita o reale risponde al suo bisogno di senso.

Ricordo quando abbiamo inserito in Comunità un signore che era solo al mondo, recuperandolo in ospedale. Portava il pannolone e non deambulava. Ora cammina e non porta più il pannolone. Ma riportarlo alla sua autonomia è stato un percorso lungo e faticoso, perché per lui raccontarsi come un disabile con gravi limitazioni fisiche era più facile che affrontare una realtà di mancato funzionamento sociale, una storia fatta di problemi di dipendenza da sostanze e di carcere, la storia di un adolescente che viveva in strada, con una famiglia in grande difficoltà. Il suo “romanzo” di disabilità gli serviva per sentirsi più accettabile e anche per accettarsi. Noi, nel tempo, con delicatezza, abbiamo ricostruito la sua storia, rispettando la sua dignità ma, al contempo, apprendendo elementi indispensabili per progettare con lui e per lui. Perché la “trappola” dalla quale guardarsi è il rischio di sostituirsi all’utente, di scegliere soluzioni dal nostro punto di vista anziché dal suo, secondo nostre priorità ed esperienze che possono essere molto lontane dalla sua visione.

Trasmettere uno sguardo libero e attento all’altro

Da quasi 20 anni faccio questo. In futuro, mi piacerebbe seguire adulti in difficoltà attraverso la progettazione sociale, approfondendo dimensioni come l’analisi dell’impatto sociale dei servizi sui territori. Nel tempo libero, come volontaria, mi occupo del coordinamento di una banca del tempo, faccio parte di un gruppo di acquisti solidali, seguo un progetto di portineria di comunità…

Ho due figli, di 10 anni e 13 anni, che ho sempre cercato di coinvolgere in un’esperienza ampia di quello che è “il mondo”, hanno partecipato alle feste delle Comunità per disabili che ho coordinato, così come ad altre occasioni in cui hanno colto il valore delle differenze; sanno che cos’è la tossicodipendenza, sanno che sto lavorando in un bene confiscato alla mafia, capita che ascoltino le mie telefonate con colleghi, utenti e familiari di utenti, quasi a tutte le ore del giorno … Sanno, insomma, che la società civile è fatta di persone varie e variegate e non hanno mai percepito l’esistenza di standard di “normalità” come modelli cui ambire o in cui cercare di rientrare. Mio figlio ha appena scelto la scuola superiore alla quale iscriversi; mentre valutavamo le diverse possibilità, gli ho chiesto: “che cosa vuoi diventare da grande”; lui mi ha risposto che non lo sa di preciso, ma sa di voler essere “una brava persona” e di voler fare qualcosa che gli piacerà. Mi sono piaciute le sue parole. Mi sembra che nascano dalla consapevolezza del fatto che nella vita ti puoi trasformare e reinventare in tanto modi, ma che è importante che tu sia felice.

Sono buddhista da più di 20 anni. Anche per questo ho imparato che la staticità non esiste, che le cose si muovono possono orientarsi verso la felicità se tu le muovi in quella direzione… Anche nel mio lavoro con le persone disabili e con i colleghi dell’équipe cerco di trasmettere, con l’azione, questa visione: non si deve costruire l’epilogo anzitempo, pensando che le difficoltà e le limitazioni segnino senza scampo il futuro; ogni giorno possiamo agire nella direzione del cambiamento, conquistare una sensazione di controllo sulla vita, superando quella contraria, per la quale ci si può percepire in balìa, del destino o degli altri. Le cose accadono se hai un obiettivo chiaro e pulito che segni la direzione. A volte si fa molta fatica perché, affinché le cose cambino, dobbiamo cambiare anche noi. Ma è importante mantenersi aperti anche a soluzioni diverse rispetto a quelle che provengono dalle proprie esperienze: ecco che possono emergere risorse che non s’immaginava di possedere.

Investire sui Volontari del Servizio Civile

In Pro.Ge. S.T. [cooperativa sociale incorporata in Anteo nei mesi scorsi; n.d.r.], mi sono occupata anche del coordinamento dei Volontari del Servizio Civile Universale. Il mio obiettivo era costruire ogni anno un gruppo con i giovani inseriti, che erano tanti (circa 40) e diversi fra loro. Dopo i primi 3 mesi di formazione obbligatoria, due volte al mese organizzavamo due sottogruppi in cui ciascuno portava la propria esperienza nei servizi e riceveva informazioni utili per capirne meglio il funzionamento e le caratteristiche. Gradualmente emergevano le competenze trasversali di ciascuno, dal talento per la chitarra all’abilità nel dipingere, alla conoscenza di lingue straniere…

Questo processo integrativo e parallelo al servizio in senso stretto generava opportunità di conoscenza reciproca, accoglienza autentica delle persone, e sfociava nella costruzione di un “prodotto narrativo” in grado di restituire il significato dell’esperienza condivisa. Dal punto di vista organizzativo, garantiva una lettura coerenza del nostro sistema di Servizi e la possibilità di strutturare anche ipotesi di futuro insieme: alcuni Volontari sono poi diventati colleghi, li abbiamo assunti in base alle qualifiche che possedevano o che hanno acquisito.

La filosofia che credo interpreti il senso più profondo del Servizio Civile è quella che valorizza la risorsa rappresentata dal Volontario, investendo sulla persona, orientandola, rendendola efficace “sul campo” e alimentando così la sua autostima. Alcuni dei nostri ragazzi provenivano da storie difficili e questa esperienza ha aperto loro nuove prospettive.

di Roberta Invernizzi