TROPPE CRAVATTE: PENSIERI SPARSI SULL’8 MARZO

Tra pochi giorni cade la data dell’8 marzo, giornata internazionale della donna. Questa data – in parte scelta per ricordare l’incendio avvenuto l’8 marzo del 1908 in una fabbrica di camicie newyorchese dove lavoravano molte donne, in parte per ricordare, proprio a partire da quell’incidente e dai molti che lo seguirono, la lotta delle donne per la parità di diritti e contro le discriminazioni – ogni anno ci porta a fare un bilancio.

VIVIAMO ANCORA AFFOSSATI NEL PREGIUDIZIO

Parità, discriminazioni, diritti delle donne: a che punto siamo? Difficile fare un bilancio globale, difficile parlare delle donne come se si trattasse di un’entità monolitica. Le condizioni economiche, sociali e culturali delle diverse zone del pianeta determinano differenti situazioni per le donne. Noi tendiamo, per un pregiudizio abbastanza sedimentato, a credere che oltre l’occidente ci sia un mondo di arretratezza culturale per cui le donne sono solo vittime di culture maschili e patriarcali che non lasciano loro alcuna libertà. E’ invece importante liberarci dal pregiudizio etnocentrico attraverso il quale siamo soliti leggere il mondo fuori dall’Europa per avere la conferma del fatto che siamo il migliore dei mondi possibili. A questo proposito vorrei condividere con voi alcune riflessioni sorte in maniera del tutto spontanea da recenti esperienze maturate in ambito lavorativo.

NEI RUOLI DI POTERE ANCORA TROPPE CRAVATTE E POCHE GONNE

Sono una docente di filosofia politica, mi occupo da tempo di tematiche legate alle donne, sia a livello teorico (insegno la teoria e la storia dei movimenti femministi) sia a livello pratico (ho frequentato gruppi femministi, faccio attivismo in realtà associative e istituzionali legate al tema della violenza contro le donne). Mi muovo, insomma, da anni ormai, in un mondo in cui do per scontato che le donne siano protagoniste indiscusse della vita pubblica, alla pari degli uomini.

Mi è capitato invece di recente, per un ruolo istituzionale che ho assunto all’interno della mia università, di partecipare a momenti ufficiali di inaugurazioni, commemorazioni, convegni, in cui ho toccato con mano, letteralmente, la quasi totale assenza di donne.

Là dove la vita pubblica assume le fattezze dell’ufficialità più alta, del ruolo apicale, rappresentativo, simbolicamente forte del potere, è tutto un pullulare di cravatte. Sempre e solo cravatte, troppe. Che poi fra loro, queste cravatte, si muovono con la disinvoltura dell’abitudine: i loro indossatori si stringono mani, si scambiano sorrisi, si rammentano impegni e favori reciproci. Quando poi prende posto sul palco, ecco che la cravatta dà il meglio di sé: indipendentemente dalla qualità del discorso, dai suoi contenuti come dalla sua forma, l’indossatore di cravatta mostra, senza alcun velo di insicurezza, di essere contento di sé, di essere convinto che se si trova lì, in quel momento, è perché lo merita, anzi, gli spetta di diritto. E’ questa sicurezza, questa contentezza del proprio sé pubblico, questa autosufficienza cravattista che noi donne non possediamo, che invidiamo (forse) nei colleghi maschi. Essi fin dalla nascita ricevono in dote una superiorità simbolica che una cultura ancora tutta incentrata sul maschile garantisce loro. Senza sforzo. Basti pensare a come risulta difficile dire “ministra”, perché “suona male”. Basti pensare a quanto, nella nostra lingua ma anche in molte altre, il maschile sia il genere grammaticale inclusivo: dicendo “tutti gli uomini” intendiamo “tutti gli uomini e tutte le donne”, è ovvio. Ma a chi viene in mente, se sente l’espressione “tutti gli uomini sono creati uguali”, di pensare alle donne, se non con un sforzo che sa di femminismo, di militanza, di rivendicazione? Nel lessico apparentemente neutro del nostro occidente avanzato manca ancora una piena autonomia simbolica delle donne. Le donne sono soggetti attivi, produttivi, creativi e generativi che hanno progressivamente guadagnato ruoli sempre più importanti nella società (pensiamo al superamento delle ragazze sui ragazzi nelle facoltà di medicina in Italia, ad esempio).  Tuttavia questa loro centralità ancora sconta una sudditanza simbolica al maschile, più disinvolto, perché più abituato, nel ricoprire i cosiddetti ‘ruoli apicali’. La cravatta funziona.

DONNE, CONNETTIAMOCI!

Diceva Antonio Gramsci che le figure “dirigenti” devono essere in grado di stabilire una “connessione sentimentale” fra sé e il popolo, al fine di non diventare “una casta o un sacerdozio” (Quaderno XVIII). Forse a noi donne manca, ancora oggi, la capacità di riconoscerci in ruoli dirigenti perché ci manca la capacità di una connessione sentimentale con le altre donne, cresciute invece come siamo ad una competizione fra noi per ruoli che per lo più sono sempre ancillari a quelli degli uomini. Quante figure femminili di supporto, di servizio, di accoglienza, che vedo nelle occasioni di incontri ufficiali fra cravatte!