PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°7 “L’esperienza di Valentina Compierchio, psicologa, responsabile di due servizi residenziali”

Un’organizzazione alla ricerca qualità

Sono in Anteo dal gennaio 2020, ho 38 anni e un bimbo di 3 anni. Sono Responsabile della Comunità Alloggio Casa Gibì di Biella e, da gennaio di quest’anno, della Comunità Protetta Casa PratoVerde di Vigliano Biellese. Lavoro nel sociale da quando avevo 21 anni: in campi nomadi, comunità per minori, strutture per stranieri e minori stranieri non accompagnati…

Mi piace lavorare in Anteo perché mi sembra che ci sia una ricerca della qualità e un’attenzione affinché le cose vengano fatte e vengano fatte bene. Anche rispetto al Sistema Qualità aziendale, quello che cerco di trasmettere all’équipe è che non si tratta di burocrazia, come a volte potrebbe sembrare: si tratta di dimostrare, anche a soggetti esterni, all’organizzazione la cura che poni nel tuo operato, la consapevolezza e l’attivazione delle responsabilità in gioco, ciò che hai fatto, ciò che hai verificato nel corso del tempo. È un processo importante.

Ho la fortuna di poter contare su due équipe esperte e molto autonome. L’équipe è tutto: anche il responsabile più bravo del mondo deve essere supportato dall’équipe. Il progetto sul paziente non lo realizza e non lo porta a termine il “fuoriclasse”.

Dall’arte alla psicologia

Ho studiato al Liceo Artistico, ero brava e avrei potuto proseguire per esempio per diventare fumettista o illustratrice. Ho scelto di iscrivermi a Psicologia perché mi sembrava che mi mancasse qualcosa dal punto di vista culturale, sentivo il bisogno di entrare di più dentro le cose. È stata tutta una scoperta, in particolare il lavoro con stranieri e nomadi e con i minori soprattutto. Il lavoro nella comunità terapeutica per adolescenti (gli ospiti avevano dai 13 ai 17-18 anni) è stato molto interessante perché ho visto gli esordi delle sofferenze, anche di gravi patologie psichiatriche: gli adolescenti sono sfidanti, bisogna contrattare molto, usare il loro linguaggio in contesti anche di esplosività.

La mia formazione artistica credo mi sia utile per l’elasticità mentale e l’intuizione che offre. Ho amato particolarmente Van Gogh, Klimt, Caravaggio… e se parlo con un paziente giovane può essere utile parlare di manga, magari orientarlo per disegnarne uno. Mi è capitato. Il disegno e la creatività artistica hanno una profonda valenza riabilitativa, favoriscono l’autostima, danno occasioni per esprimere se stessi, organizzare il pensiero, realizzare qualcosa di tangibile.

Due residenze, due contesti simili e diversi

In Casa Gibì si percepisce che la relazione è al centro: l’équipe è molto affettiva, utilizza quello che si può chiamare un codice materno, accogliente. Gli Ospiti mostrano di sentirsi parte di una famiglia. Gli operatori sono molto generosi e gli Ospiti ne traggono beneficio: stanno bene e anche chi arriva molto sofferente manifesta un miglioramento. L’équipe stessa per lavorare bene con i pazienti deve stare bene: aiutano molto buoni ritmi, turni adeguati, riposi equilibrati per poter fare decantare le emozioni, riunioni in cui tutti abbiano spazio per esprimersi, una linea comune, la voglia di migliorarsi, di formarsi… L’amalgama del gruppo si costruisce attraverso tanti fattori.

A PratoVerde, dov’è attiva un’équipe altrettanto sensibile ed efficace, gli Ospiti hanno situazioni complesse, spesso di cronicità importante. Alcuni con un grave deterioramento non hanno una percezione della loro cronicità, altri invece vorrebbero trasferirsi in realtà abitative più autonome. Il nostro compito è anche quello di proteggere da eventuali regressioni nel percorso riabilitativo, che avrebbero ricadute sull’autostima e genererebbero sofferenza e senso di sconfitta, squalifica. Si tratta di ponderare attentamente ogni passaggio, in rete e con una grande attenzione anche per gli equilibri del gruppo.

Durante le chiusure legate al Covid, ci sono state limitazioni difficili da capire per alcuni Ospiti. Abbiamo lavorato molto su questi aspetti, molti colloqui, molta contrattazione, anche con il supporto di medici del CSM. È importante non sentirsi soli nei momenti di difficoltà: il nostro è un lavoro di rete che funziona anche molto bene.

Ritmi e obiettivi diversi per ciascuna persona presa in carico

I percorsi riabilitativi dei nostri Ospiti non sono lineari e non sono standard, né quanto a modalità né quanto a tempistiche: i passaggi da una struttura a un’altra devono essere graduali, ponderati. Per ogni persona si individuano obiettivi che devono essere realistici: per un Ospite l’obiettivo per il prossimo anno può essere partecipare a un laboratorio incentivato, mentre per un altro sapere in quale cassetto sono riposte le sue calze. La visione realistica della via percorribile è essenziale: si deve sfuggire alle pressioni della società e ai diffusi imperativi efficientisti.

La percezione del ruolo

Mi piace lavorare con le persone, pensare di fare delle cose insieme, non guidata dall’idea “io ti salverò”: insieme. È importante. Per questo in futuro mi immagino sempre in questo lavoro.

Non mi piacciono la burocrazia, il meccanismo delle DGR che tolgono risorse e personale, una certa politica che ostacola un vero  lavoro di qualità.

Quando parlo del mio lavoro qualcuno mi dice: “che coraggio!”. Io non so se ci vuole coraggio a lavorare in psichiatria. Certo, ciò che non si conosce è imprevedibile e può fare paura, ma io non provo questo. Nell’immaginario collettivo, forse, come storicamente era un tempo, la psichiatria si occupa di una serie di realtà che deviano dalla norma e che quindi destabilizzano. Se mi trovo di fronte a comportamenti che possono essere rischiosi, che chiamano in causa in modo profondo la mia responsabilità li gestisco. Ricordo una ragazza, quando lavoravo nella comunità per minori, che aveva un grande bisogno di affetto ma stava malissimo e un giorno ha dato fuoco alla struttura. Di fronte all’aggressività, per esempio, difficilmente mi agito: contengo e tranquillizzo; serve una giusta contrattazione, capire quali limiti è giusto dare in modo tale che siano utili per il paziente oltre che per il gruppo e per l’organizzazione. Forse solo il rischio suicidario mi fa realmente paura.

 

di Roberta Invernizzi