I ripetuti eventi tragici in merito ad incidenti stradali per guida in stato di ebbrezza, il cui numero di morti è impressionante, non possono essere ridotti a pura fatalità.

Un po’ di statistica

Poco consola la statistica, in questo caso. Sapere che rispetto ad un decennio or sono il consumo pro capite di alcol è diminuito e che addirittura rispetto a 30 anni fa si è ridotto di quasi due terzi potrà compiacere chi, tra i medici, si occupa di Salute Pubblica e di statistiche. Di fatto gli incidenti di queste ultime settimane, il cui filo conduttore pare essere quello legato ad abusi alcolici, ripropongono l’eterno dibattito sull’insieme di politiche preventive e repressive che si devono mettere in atto per rendere più consapevole la popolazione della pericolosità di determinate condotte.

In Italia si sono scelte prevalentemente le seconde. I controlli diffusi rappresentano un buon test di quanto si sia ancora lontani dalla consapevolezza che bere e poi guidare contempla una condotta pericolosa ma ancora troppo praticata.

Dati relativamente recenti (RELAZIONE DEL MINISTRO DELLA SALUTE AL PARLAMENTO SUGLI INTERVENTI REALIZZATI AI SENSI DELLA LEGGE 30.3.2001 N. 125
“LEGGE QUADRO IN MATERIA DI ALCOL E PROBLEMI ALCOL CORRELATI”) ci dicono che da controlli in 80 province italiane il 5,7% è risultato positivo all’alcol con valori superiori a quelli stabiliti dalla legge (guida in stato di ebbrezza). Numeri che non sono irrilevanti considerato il dibattito mediatico che ha portato anche alla configurazione di uno specifico reato qual è l’omicidio stradale, con pene molto alte.

Condanna o tolleranza sociale?

Eppure, malgrado questo, l’abitudine di bere per poi mettersi al volante non sembra, nell’immaginario collettivo, comportamento da censurare se non ex-post. La percezione o i motivi per cui stiamo mutando, molto lentamente, i nostri comportamenti sono infatti dovuti principalmente al timore delle conseguenze. Andrebbe trasmessa la consapevolezza che tali abitudini, prima ancora che per gli aspetti punitivi, rappresentano un elemento di disvalore in riferimento alle possibili conseguenze sulla vita umana. Al contrario, nell’immaginario collettivo, questa consapevolezza è secondaria.

Come dire che io non rubo perché ho paura di essere scoperto e non perché lo trovo moralmente riprovevole.

L’interiorizzazione di una determinata condotta, in termini di disvalore sociale prima ancora che penale, rappresenta la vera ed irta strada su cui dovremmo concentrare i nostri sforzi. Un’identità normativa che ci accompagna lungo la nostra esistenza.

È indubbio, ad esempio, che sensibilizzare la popolazione in merito alla necessità di raccolte differenziate ha generato comportamenti virtuosi. Se oggi noi adottiamo la raccolta differenziata lo facciamo perché siamo convinti della bontà di tale condotta, che si riflette in un beneficio collettivo. Non certo raccogliamo il vetro per l’ipotetica multa che potremmo prendere nel momento in cui non osserviamo quella norma.

Reprimere o educare?

Un tale processo educativo e di condivisione dovrebbe verificarsi anche con il concetto di sicurezza alla guida. Organizzare l’uscita serale adottando ciò che in molti paesi si adotta da decenni (chi guida non beve, ad esempio, oppure si divide il costo di un’auto pubblica) è pura questione di consapevolezza in merito ai rischi che si corrono rispetto alla guida in stato di ebbrezza: porre al centro il valore o il disvalore di un nostro comportamento rappresenta l’architrave del nostro relazionarci con gli altri.

E, forse, in questo – oggi – in Italia difettiamo. Corsi di educazione stradale e sensibilizzazione rispetto alla norma dovrebbero essere implementati a partire dalle scuole medie primarie, posto che i ragazzi iniziano a rapportarsi ai codici stradale nel momento in cui la loro relativa autonomia li porta (anche solo in bicicletta) a circolare in spazi pubblici.  Incentrare l’educazione sulla valutazione dei rischi, per sé e per gli altri, dovrebbe indurci alla consapevolezza che ogni nostro gesto può avere ripercussioni (in questo caso drammatiche) sulle altre persone. Che nella scelta individuale si devono contemperare le scelte degli altri.

Un piano nazionale di educazione stradale, di fatto – in Italia – non esiste. E crediamo che anche alla luce dei recenti fatti di cronaca non possa più essere procrastinato. Delegare alla sola repressione mutamenti culturali, a memoria di uomo, non ha mai funzionato.

Oltretutto ridurre anche di pochi punti percentuale tali condotte si tradurrebbe in un enorme risparmio in termini di costi sociali e sanitari.

È davvero incomprensibile che un tale piano non sia già stato adottato