PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°21 ” Ci metto cuore, empatia e disponibilità alla sorpresa! ” Carmen di Gennaro  Educatrice Professionale presso CRAP Nuova Dimensione di Foggia

 

Una brusca gelata dopo una splendida fioritura

Ho 35 anni e lavoro come Educatrice da 13. La mia attività non mi spaventa e non mi sconcerta perché lavoro con persone e non con macchine: ci metto cuore, empatia e disponibilità alla sorpresa. Anche le difficoltà e i fallimenti mi interrogano e io sono aperta alle domande.

Risale a poche settimane fa un episodio che ha suscitato in me molte riflessioni. È stato attivato un Accertamento Sanitario Obbligatorio per una nostra Ospite, una signora che è da noi da circa 3 anni e mezzo e che ha realizzato un percorso importante. Andava a lavorare, aveva recuperato il senso della cura di sé, ogni giorno, pulita e profumata, prendeva l’autobus e poi il treno per raggiungere il posto di lavoro, dove collaborava serenamente con i suoi colleghi. Nel suo progetto c’era molta speranza. In particolare, aveva l’aspettativa, molto elevata, di ricongiungersi con i figli, una ragazza maggiorenne e un bimbo ancora minorenne. Si trattava di un obiettivo piuttosto irrealistico, purtroppo, anche a causa delle sue condizioni sanitarie (è affetta da schizofrenia paranoide cronica). Nel momento in cui ha compreso le difficoltà oggettive che ostacolano il raggiungimento del suo scopo, ha subito un crollo. La speranza muove tutti noi; se viene meno, la crisi diventa profonda. D’altronde progettare un intervento educativo e riabilitativo ha a che fare proprio con la speranza, col guardare al futuro, con il costruire percorsi di vita oltre la malattia. Ma cosa si fa quando si vede nero, quando quella speranza che ti accompagna svanisce come una bolla di sapone?  Questa è la situazione che si è venuta a creare e che ha portato all’intervento, drammatico ma necessario, di quel giorno.

Le notizie delicate sulla sua prospettiva familiare sono state date in modo graduale, anche perché la sua situazione generale è molto delicata: il suo compagno è morto e lei  ha deciso di dimettersi dal lavoro perché non sono state accettate alcune sue richieste economiche. Una fase della vita davvero complicata…

Di fronte a questi eventi, mi sono chiesta: dove ho sbagliato, come Educatrice, nella relazione con lei? E come posso aiutarla oggi?

Emozioni e interrogativi

Mi ha colpito molto il suo sguardo nel momento dell’allontanamento dalla Comunità. Ero presente, perché in turno. Sembrava dirmi: “Mi hai tradita! Perché mi hai fatto questo?” E poi, quando tornerà dal ricovero, come potrò ricucire per riprendere al suo fianco il cammino verso i suoi obiettivi di equilibrio e di benessere? Sono consapevole del fatto che nessuno di noi l’ha tradita, naturalmente, ma sento la necessità di comprendere come esserle di aiuto, da oggi in poi.

Questa storia mi ha fatto riflettere molto sui tipi di sofferenze che vivono i nostri Ospiti: in questo caso, si tratta di una mamma malata, consapevole dello stigma sociale che la colpisce e ora anche dell’impossibilità di “fare la madre”. Ricordo che all’inizio della sua permanenza rifiutava la terapia farmacologica; più tardi, ha faticato a confrontarsi con quello che viveva come un trattamento ingiusto: “ci sono cattive madri che, solo perché non hanno malattie mentali, possono stare con i loro figli”.

Soffro per la decisione che è stato necessario prendere, pur comprendendone le motivazioni e le finalità. Mi sento vicina a lei. Temo che a volte i decisori sottovalutino la sfera degli affetti, l’ampiezza degli effetti che questo dolore può generare…

Lo scottante tema delle regole

Presso la nostra Comunità è ospitato anche un giovane agli arresti domiciliari. È pieno di energie e potenzialità, è motivato a “cambiare strada”… ma in questo contesto di vita si sente come chiuso in una gabbia. Le regole che caratterizzano la quotidianità qui rischiano di “spegnerlo”. Anche queste sono situazioni che mi portano a pormi molte domande.

Credo che ogni regola, per essere davvero costruttiva, debba essere assolutamente chiara a chi è chiamato a rispettarla e ben orientata a uno scopo condiviso. Altrimenti, rischia di sortire l’effetto opposto a quello desiderato. Servono consapevolezza e confronto. Non una postura: “Io decido, tu rispetti”, muro contro muro. Ognuno ha la propria storia personale, anche di rapporto con le regole: ognuno di noi, Ospiti e anche Operatori. Così, ci sono regole legate agli orari che possono essere poco sensate agli occhi degli Ospiti: consumare la prima colazione alle 7,30 per persone che, anche per le terapie che seguono, faticano a svegliarsi al mattino presto, può essere pressoché impossibile o comunque quasi “punitivo”; consegnare la sigaretta rigorosamente alle ore 9,00 significa mettere in difficoltà l’Ospite compulsivo (e l’Operatore che si relazione con lui), in nome di un obiettivo educativo che, se non viene percepito come tale, risulta vuoto.

La regola cieca, insomma, dà valore a chi la impone e non a chi è chiamato ad applicarla.

Credo sia importante osservare per capire quali comportamenti è meglio evitare, se ci sono strumentalizzazioni in atto, se ci sono tensioni che è meglio non esacerbare. Mille occhi, insomma, altroché cecità! Bisogna costruire alleanze, non barriere; negoziare, non imporre; ordine sì, ma non attraverso la paura o il ricatto, non infantilizzando persone adulte, bensì riconoscendo la loro dignità. Certo, la flessibilità è più difficile da gestire, giorno per giorno, rispetto alla rigidità senza eccezioni. Ma credo ne valga la pena per far emergere e valorizzare le identità, le attitudini, la natura di ciascuno, verso la piena autonomia.

Una scelta professionale fortemente desiderata

Sono stata fortunata, ho seguito proprio il percorso professionale che mi sarebbe piaciuto. Mi sono laureata nel 2009 e un mese dopo già lavoravo. Ho attraversato il periodo critico della cooperativa per cui lavoravo [poi acquisita da Anteo Impresa Sociale; n.d.r.] e, anche nel mezzo di quelle difficoltà, la mia motivazione è rimasta intatta, il mio approccio è rimasto coerente. E nel frattempo sono cresciute l’esperienza e la consapevolezza.

Questo lavoro mi insegna molto. Per esempio, la perseveranza. Gli Ospiti mi insegnano a non arrendermi mai, a pensare sempre al futuro, anche quando il presente non va esattamente come si vorrebbe.

Per questo, anche mentre ne parlavo, ho capito che cosa vorrò dire a quella donna, all’Ospite che ha ricevuto un Accertamento Sanitario Obbligatorio; le spiegherò: “Il nostro è stato un gesto di cura, di amore. Era l’unica cosa che potevamo fare in quel momento per te.” Poi tornerò con l’attenzione al suo progetto di vita, di donna, di persona, a tutto ciò che c’è e ci può essere oltre la maternità negata. E magari la accompagnerò a comprare un vestito nuovo o qualcuno dei trucchi che le piacciono tanto.

 

di Roberta Invernizzi